Alfonso Dinacci
(1832 – 1881) Nato ad Atripalda, appena sedicenne partì per i campi di battaglia del Lombardo-Veneto e arruolato nel corpo volontario napoletano, al comando del generale Guglielmo Pepe, combatté nella Prima Guerra d’Indipendenza. Sempre alle dipendenze del generale Pepe, prese parte alla difesa di Venezia e, quando fu inevitabile la resa contro le forze austriache, assolutamente superiori per numero, fu costretto all’esilio come molti altri combattenti. Nel 1860 fu tra i Mille di Garibaldi e successivamente nell’Esercito dell’Italia Meridionale, in qualità di luogotenente dei Cacciatori Siculi, e poi Capitano promosso per meriti di guerra.
Il 7 novembre del 1860, mandato in distaccamento ad Acerra, affrontò da solo una schiera di borbonici tutti armati. Li obbligò a retrocedere, mettendo in serio repentaglio la propria vita. Ristabilito l’ordine, arringò il popolo per un avvenire migliore e lo entusiasmò ad accogliere festosamente Vittorio Emanuele II. Nello stesso anno ad Arienzo riuscì a sedare una rivolta e a mantenere l’ordine pubblico. Nel 1861 riuscì a liberare Rodi, in Capitanata, dai briganti che l’opprimevano. Dichiarata la Terza Guerra d’Indipendenza, accettò, pur di parteciparvi, il grado di Tenente nell’8° Reggimento Volontario Italiano. Nel 1867, da Capitano, fu tra i più ardenti fautori della liberazione di Roma. Si spense nel 1881, ad appena 49 anni in Sicilia, dove era stato destinato a comandare le guardie a cavallo.
Sulle colonne del Vittoriano una lapide a suo nome, tra le 90 che celebrano i protagonisti dell’Unità d’Italia, ricorda le imprese di Alfonso Dinacci.
“Apostolo, soldato e martire, vissuto nel più generoso e più nobile affetto per l’umanità e per la patria, senza ambizioni, senza ricompense di sorta”.
Così Salvatore di Giacomo, poeta, scrittore e drammaturgo napoletano definì Alfonso Dinacci quando, nel 1911, nell’allestimento della mostra storica sul Risorgimento italiano, espose in una vetrina i cimeli del patriota atripaldese.